Una storia di mio padre

Capita alla fine di quasi ogni riunione. Tutti schiacciano il pulsante Leave Meeting o a volte l’organizzatore lo conclude per tutti e il gioco è fatto. Io però non sono mai veloce a premere quel bel tasto rosso vivo. Quando vedo i riquadri con le facce dei colleghi sparire una ad una, non posso fare a meno di pensare che sta per cominciare un’altra giornata d’isolamento, chiusa in casa con le luci basse per non creare riflessi sul monitor, che lui, invece, di luce me ne può mandare finché i miei occhi saranni stremati, perché la macchina è infaticabile, la donna no. M’è capitato la prima volta un paio di settimane fa: una che rimane e che non schiaccia il bottone e fissa il vuoto dietro la videocamera. A che pensa? Mi trattengo anch’io un attimo di più e c’è questo momento imbarazzato in cui entrambe scopriamo che l’altra non ha nessuna intenzione di schiacciare il bottone. Siamo rimaste solo io e lei. Mi scruta da dietro i suoi occhiali spigolosi. Leggo il suo nome: Carla Maisto. Ci dev’essere stata una mia compagna di classe che si chiamava così alle scuole superiori, no, prima, molto prima, altrimenti me ne ricorderei. “Ciao”, mi fa, senza sorridere. Sobbalzo. Mi lancio sul mouse in preda al panico e schiaccio:

LEAVE MEETING

Stavo scrivendo un piccolo prototipo per una di quelle funzionalità a cui avevo pensato e che i sommi artefici dell’esperienza utente avevano approvato. “Scrivi un prototipo”, mi dicono. Sorpresa! Non avevo mai avuto un’idea abbastanza buona da essere incoraggiata. Se ci penso bene, mi ricorda la casa dove sono cresciuta. Ogni volta che mi veniva un’idea era sempre troppo lavoro, troppi sforzi. Era meglio lasciar stare. Il prototipo stava andando bene e avevo finalmente qualcosa da mostrare, un leggendario Minimo Prodotto Fattibile, e così organizzo una presentazione. Invito tutto il team dei designer e quello degli sviluppatori che lavoreranno con me per realizzare la versione definitiva, nel caso riceva l’approvazione. Non uso le e-mail dei singoli, ma quelle di gruppo: ux-designers e devs. Il giorno della presentazione sono nervosissima. Non mi aiuta pensare agli spettatori in mutande, e non riesco a farmi venire in mente la battuta che avevo preparato per rompere il ghiaccio. Il progetto non sarà approvato. Lo capisco dallo sguardo di Erica e da quello di Giulio, che sono preoccupati, corrucciati, come se gli avessi detto che sono sbarcati gli operai da Marte per smantellare l’universo. Alla fine della presentazione mi sento svuotata. Carla era lì sullo schermo insieme agli altri. Tutti abbandonano la riunione quando finisco. Lei è ancora lì. Mi guarda senza dir nulla. Gli chiedo se ha domande. Mi fa di no, scuotendo la testa e sorridendo. Schiaccio il pulsante che termina la riunione per tutti i partecipanti e la sua faccia ossuta scompare da qualche parte. Non riesco a fare altro per il resto della giornata. Penso a mia madre e al giorno in cui mio padre crepò. Avevo vent’anni, studiavo all’università e lavoravo part-time in una piccola agenzia che lavorava con il Web. L’agenzia si chiamava Aristocrat! col punto esclamativo ma non ne ho mai capito il perché.

Apro il mio portatile e metto le cuffie che ho appena comprato con i saldi, quelle senza fili che mi permetterebbero di camminare nel piccolo buco di appartamento dove vivo durante le riunioni e invece sto seduta come se avessi dimenticato i pantaloni o la gonna e fossi in mutande. Siamo in quattro o cinque, di quelli ansiosi che quando compare la notifica della riunione che comincia tra un minuto si connettono immediatamente e così sono in anticipo. C’è Giulio con la sua aria cordiale, che mi mette di buon umore e mi dà il buongiorno quando attivo la mia webcam, che gli rendo quasi con sollievo. Erica è lì che si mangiucchia le unghie e dice qualcosa a Paolo, il fratello di Giulio, che l’ascolta e sorride come un ebete. Carla è lì anche lei. Non parla con nessuno. Ha cominciato a lavorare qui da pochi giorni. Nella chat avevo guardato il suo profilo, la sua foto, la sua aria distratta e fuori posto anche lì. Tutti diamo i nostri aggiornamenti e la riunione finisce. Spingo di nuovo il gran bottone rosso e ricomincia l’isolamento.

Da piccola mi piaceva disegnare. Facevo disegni di casette e mio padre mi diceva che da grande sarei stata un grande architetto e io in cuor mio n’ero felice. Quel caro papà mio che quando se n’è andato mamma non c’è più stata tanto con la testa. Chissà se Carla ha ancora i genitori. È più vecchia di me, a occhio e croce di una decina d’anni. Comincio a fantasticare sulla sua storia. Funziona sempre così, m’immagino sempre le storie delle persone che conosco in ufficio, e meno le conosco e più le storie sono fantasiose, finché a un certo punto ci parlo un po’ di più e mi accorgo che quella storia non sta in piedi, che quella persona me l’ero immaginata male, e questo sia in un senso che in un altro, o per troppa fantasia o per troppo poca, ma poi a parlarci bene, con le persone, se ne scoprono sempre particolari sconcertanti che uno li ascolterebbe parlare all’infinito, non esistono persone non interessanti, e quando le trovi, vuol dire che sei tu che hai smesso di ascoltarle. La noia nella conversazione è un chiaro segnale di stanchezza mentale, di resa al cospetto della più difficile attività a cui, come esseri umani, ci sottoponiamo.

Ascolto della musica. Alle volte quando sono bloccata va così. Non riesco a lavorare. Non riesco nemmeno a quantificare cosa conti come lavoro e cosa no. Vedo pressappoco quel che dovrei fare e faccio tutti i preparativi ma mai quell’unico passo decisivo e temerario che ne segnerebbe l’inizio. Mi accorgo che lo sguardo di Carla mi ossessiona. Contatto Giulio, che lavora alle risorse umane, e gli chiedo di lei. “Non la conosco”, mi fa. Ma l’avrà pur vista alle riunioni? “Che ne so, non ci faccio caso.” Strano. Ha una sua bellezza, devo ammetterlo. Faccio fatica a pensare che possa passare inosservata. Porta i capelli biondi legati in una coda di cavallo e c’è qualcosa, nel modo in cui resta assorta, che la fa assomigliare a qualcuno che riesce a concentrarsi senza problemi. Una che riesce a far progressi durante la giornata e a raggiungere gli obiettivi che si è posta o che le sono stati imposti. Gli obiettivi della giornata. Quei piccoli passi che costituiscono il piano che completerai alla fine della settimana, e ogni settimana si accumula per formare i mesi, i trimestri, gli anni, la tua carriera. Piccoli passi e grandi viaggi. Finché ce n’è o finché sei morta. È molto che non viaggio. E gli altri? Ce l’avranno avuto un padre assente per dieci anni? E una madre che non ce la fa più e allora ha bisogno di aiuto? E si troveranno nel posto in cui volevano essere? C’è qualcuno che comincia il viaggio e sa esattamente dove vuole andare e ci va ed è contento, fine. Ma ho il sospetto che la maggioranza delle persone sia piuttosto come me. Una povera anima persa nell’oceano delle possibilità e che si arrampica su ogni relitto che le consenta un po’ di riposo durante il naufragio e poi si trova un giorno su un’isoletta dove muore sola. Tutti un po’ così. O forse solo io. Sarebbe triste, ma non più triste di quanto sia oggi. Una consapevolezza del genere non mi rovinerebbe la giornata.

Dopo cena di solito passeggio. Le giornate si allungano e ne approfitto per godermi un po’ di luce naturale, prima che i neon si accendano e ritorni nell’artificio della modernità. Porto in giro il mio cuore dilaniato e la mia ragione che si crea ostacoli senza che nessuno gliel’abbia chiesto. Una di queste sere incontro Carla. Abitiamo dunque nello stesso quartiere? Mi sembra che mi abbia vista, e che poi abbia cambiato strada. Camminava nella mia direzione, io ero ferma all’incrocio aspettando che il semaforo diventasse verde, anche se in realtà c’ero solo io e le macchine che passavano a quell’ora erano forse una o due. Lei era a spasso e parlava al telefono. Fa ancora freddo e io sono tutta imbacuccata e invece lei con una giacca leggera e senza berretto. Cammina verso di me e poi improvvisamente ha come un soprassalto, credo mi abbia vista e riconosciuta, e come se niente fosse fa dietrofront e cammina nella direzione opposta. Me ne frego del semaforo e la seguo. Non so quanto camminiamo. Lei non smette di parlare al telefono. Entra nel parco, continuo a seguirla ma a una certa distanza. Mette via il telefono e si siede su una panchina di fronte al fiume che scorre in mezzo al bel parco. Cominciano ad accendersi i primi lumi e il sole brucia i suoi ultimi riflessi sulla superficie dell’acqua in movimento. C’è una canoa biposto con un ragazzo muscoloso e gli occhiali da sole e una ragazza atletica, altissima ma delicata, con una visiera di quelle che si usano nel tennis. Grida qualcosa al ragazzo muscoloso, gli occhiali da sole pure lei, di quelli che i vetri ti riflettono e non lasciano vedere gli occhi di chi ti guarda. Gli urla parole e il vento le porta via, ridono e il vento si portava via pure quello, il suono di una risata spontanea, l’attività all’aria aperta, la persona che nel tuo cuore conta un po’ di più, essere felici perché nulla conta e tutto è possibile e tutto è bello.

Carla si gira verso di me e mi fa cenno di avvicinarmi e mi chiede di sedermi accanto a lei. Non ci stringiamo la mano anche se all’inizio il mio istinto è di farlo, lo faccio sempre, me l’ha insegnato mia madre, prima che diventasse isterica, prima di papà. “Ti conosco”, mi dice. “Lavoro nello sviluppo”, le dico, anche se non me l’ha chiesto. “Ah, certo”, fa lei. “Io scrivo la documentazione tecnica. Ho cominciato solo un paio di settimane fa.” “Sei di qui?” “No, mi sono trasferita da poco. Lavoravo nella sede di Bergamo ma come forse saprai l’hanno chiusa.” A dire il vero non sapevo nemmeno che esistesse una sede a Bergamo. ”Sai che ti dico?”, mi chiede dopo un po’, quando il silenzio tra noi fa meno paura perché ci siamo abituate. “Perché non facciamo due passi insieme? Possiamo comprare un gelato. Dai, sarai mia ospite.”

Mi chiede di dove sono, e glielo dico. È facile parlare con questa donna. Ha l’aria di una gran dama. Quando le dico il nome del mio paese trasale, ma cerca di nasconderlo. “Cosa c’è?” “È che conoscevo una persona di quel posto, un caro amico” “E cosa gli è successo?” “Se n’è andato. Sai, il cancro.” Mi si strinse il cuore. “Anche mio padre se n’è andato così.” Ci guardammo a lungo. “Sei la figlia di Mattia?”, mi chiese infine. “Era lui il tuo amico?” “Proprio così. Tuo padre e io eravamo amici d’infanzia.” “Allora sei tu Carla.” Me lo ricordavo, lui che parlava di lei. Abitavano in posti diversi ma si conoscevano da quando erano bambini. Non si frequentavano più. Come mai? La distanza. La famiglia. Le responsabilità. L’età adulta. Assurdità. Lei era la donna che l’avrebbe fatto felice, ma per qualche motivo non se n’erano accorti in tempo ed erano finiti invischiati in altre vite, in altri amori che cercavano d’imitare quello lì, quello iniziale che avevano frainteso credendolo un’amicizia e che era perduto per sempre. Quello che non si poteva rimpiazzare. Quello contro cui tutti gli altri amori si misuravano e risultavano manchevoli. “Mi aspettavo di vederti al funerale”, le dissi. Lei sembrò confusa. “Aspetta, eri lì?”, le chiesi. “Sì.”

Mangiammo il gelato in silenzio. Lei ne aveva preso uno al pistacchio. Il verde era l’unica cosa che mi sembrasse naturale e vera e disinvolta. “Sono contenta di questa chiacchierata.” Pensai: sono grata per questa parentesi inaspettata. Non mi è mai capitato di trovare un riferimento così diretto a mio padre. Era come riaverne una parte. “Vorrei incontrarti di nuovo. Vorrei che mi parlassi di lui.”

E così cominciammo a frequentarci. Io le raccontavo la vita di lui in famiglia. Lei mi raccontava di quando passavano tempo insieme, prima che lui andasse all’università. Ci incontravamo sempre in quel parco. Non sono più ripassati, quelli della canoa. Ce ne furono altri ma non li notai. Mi trovavo rapita a sentirmi raccontare quel lato di mio padre che non avevo mai conosciuto, di quando lui aveva meno della mia età. Pensavo a quanto ci saremmo capiti. Le giornate si allungavano sempre di più, giugno si avvicinava e i canali intorno al palazzo presidenziale si gonfiavano d’acqua, le stradine del centro di gente, i cuori di belle speranze.

Sentii mia madre. Stava meglio. Non le dissi di Carla. Non so dire perché. Forse ero gelosa di quella piccola parentesi della mia vita in cui mi sentivo meno sola e più libera, come se l’ingessatura che mi rendeva la respirazione difficile si fosse rotta lungo le crepe scavate da questa persona così gentile, così inattesa. Mi capita spesso di chiedermi se sarei nata lo stesso, sotto un’altra forma, se fossi stata sua figlia. Se io sono io, indipendentemente dal corpo che mi ospita. Le mie recenti convinzioni sull’assenza dell’anima non mi aiutano più in queste fantasie. Se mio padre e mia madre non si fossero mai incontrati, se lui e questa donna avessero capito il vero significato dell’uno per l’altra e avessero formato una famiglia, io non sarei mai esistita. Questo mi avrebbe evitato un po’ di problemi.

“Ho una cosa da mostrarti”, mi dice un giorno. Eravamo alla fine di una riunione che si era protratta più a lungo del sopportabile. Uomini scuri in volto parlavano di budget e del mercato che si restringeva. Forse ci sarebbero stati dei licenziamenti. Alla fine tutti si scollegano velocemente. Rimaniamo io e Carla, come spesso in passato. “Va bene”, dico per dire qualcosa, perché lei mi guarda ma non si muove. Lei fa quella sua espressione come per dire “Vabbe’ allora se proprio dobbiamo”, mette la mano destra fuori dall’inquadratura della videocamera e di nuovo dentro, ma questa volta stringe quello che sembra un pacco di lettere. “Sono di tuo padre”, mi dice. “Me le ha scritte durante gli anni. La maggior parte sono del periodo iniziale. Dopo sono state di meno. Le vuoi leggere?” “Non lo so. Non sono una cosa privata?” “Certo che lo sono. Ma sei sua figlia e forse ti aiuterebbero a conoscerlo meglio.” Il corriere suona al citofono il pomeriggio del giorno stesso. “Posta”, annuncia al citofono, l’irritazione nella voce. “E grazie a lei”, mi dice porgendomi una ricevuta dopo ch’ebbi firmato. Licenziarono quaranta persone quella settimana, tra cui Carla. Le disattivarono gli account e non la rincontrai più. Qualcuno mi disse che aveva lasciato la città. Non fosse che per quelle lettere, crederei di essermela immaginata. Dopo aver letto le lettere di mio padre mi tornò un po’ di entusiasmo per il lavoro. Non so se le cose siano collegate. Riconobbi l’uomo con cui avevo giocato da bambina e da cui avevo imparato qualcosa, mai perché me lo insegnasse e sì perché glielo rubavo. Era geloso di quel poco che sapeva. Ma in queste lettere era generoso in un modo che non gli ho visto usare con mia madre. Forse era un bene che Carla fosse sparita. Forse era tornata al nostro paese. Io avevo già deciso che non ci sarei tornata più.