Incartare

Già da molto giovane, quand’era ancora uno studente, Fabio aveva sentito il bisogno di solitudine profondo che avrebbe caratterizzato tutta la sua vita. Nei libri e nei quaderni non vedeva se non costrizione. I compiti e le letture non l’avevano mai entusiasmato, né a scuola né altrove. Gli obblighi proprio non facevano per lui.

Aveva cominciato con qualche oggetto che trovava in giro per casa. Quel giorno stava con la penna in mano e scriveva cose a caso per vedere dove lo portassero. Andò in bagno per guardarsi allo specchio, anche se a suo padre rincresceva. Di specchio ce n’era solo uno, nel bagno grande. Suo papà, mezzo ascetico e mezzo squinternato, odiava lo specchio e lo riteneva un segno di vuota vanità, e cercava di tenere sé stesso e gli altri lontani da esso il più possibile, e di usarlo solo per motivi strettamente igienici, come per farsi la barba e pettinarsi. Inutile tentare di scoraggiarlo: Fabio aveva imparato presto a profittare dei momenti di assenza del genitore, timoroso dell’ira paterna. Si osservava lungamente, con un’intensità tanto maggiore quanto più difficile era poterlo fare apertamente. Mentre studiava la propria immagine una sera estrasse dalla tasca dei calzoni rattoppati per la centesima volta una gomma da masticare e la scartò. Si guardò farlo allo specchio, se la rigirò tra le mani e l’annusò. Poi ebbe un’idea. La riavvolse nella stagnola e ripiegò con cura, per poi inserire l’oggetto metallico nell’involucro cartaceo. Fu una folgorazione. Sentì quattro cose: un senso come di uno che raddrizza un torto, l’ebbrezza di far tornare indietro il tempo, la gioia muta di chi ritrova la purezza perduta, la responsabilità di chi preserva la storia. Tutto nello stesso istante. Probabilmente di quei piccoli e brevi impulsi sensoriali quello che risuonò maggiormente con lui era quello di preservare. Che nulla si sciupi! Che a nulla venga morso il culo dal passare del tempo! Non si guardò mai più allo specchio.

Entrò nella sua camera e prese il quaderno su cui cercava di dimostrare i suoi teoremi. Quelle equazioni irrisolte lo rattristavano, ma non aveva tempo da perdere a dolersi della propria incompetenza. Strappò le pagine e prese la penna. La incartò. Trovò dello spago e lo usò per legare il pacchetto. La penna era ora preservata. Ma non era lo stesso. Non aveva ripristinato una condizione perduta. Ne aveva solo creata un’altra che avrebbe richiesto un ripristino impossibile, giacché come poteva rimettere a nuovo quel quaderno da cui una pagina era stata strappata? Ne fu turbato.

Fece qualche esperimento. Prese le sue scarpe, le rimise nella scatola, e la incartò in un foglio del quotidiano con la foto di un’attrice appena scomparsa. Il titolo: “Troppo giovane”. Prese del nastro avanzato da Natale e annodò alla bell’e meglio le scarpe inscatolate. Aveva diciannove anni e non sapeva ancora che fare della sua vita, ma sentiva che oggi tutto aveva trovato un senso. Avrebbe incartato le cose e l’avrebbe chiamato creare. Perché se ripristinare il passato aveva un suo fascino, analogo a quello di cancellare i segni della propria presenza, lasciar tracce gli faceva provare quella pienezza che lo rendeva completo.

Quando il padre e la madre rientrarono, quest’ultima rimase di stucco. Le sedie, la TV, il tavolo, i piatti, le posate erano tutti incartati. “Ma cosa succede?”, chiese sua madre sguaiata, che non aveva mai avuto un’idea, a cui di Fabio non importava nulla, che amava bere con le amiche. Solo le amiche e la bottiglia e qualche soldo. “È arte”, dichiarò impettito. Il padre non cercò lo scontro: lo invitò molto cortesemente ma con fermezza a fare le valigie.

Fabio andò a vivere in una comune in provincia di C… Usava una stanza condivisa con altri artisti straccioni e una prostituta. Raccoglieva oggetti dappertutto, ma mai pagandoli, e li incartava. Prendeva in prestito una chitarra e suonava in strada per far soldi e comprare le uniche cose di cui aveva bisogno: lo spago e la carta. Una buona quantità, beninteso, se la procurava di seconda mano o direttamente dalla spazzatura.

Si legò di amicizia con un pittore della comune e insieme convinsero un tale in una galleria a ospitare una loro mostra. Aveva incartato trentasei oggetti di uso quotidiano, e anche la chitarra che aveva usato in istrada. I quadri dell’amico, un ragazzo zingaro che dipingeva le scene che aveva sognato, passarono in secondo piano. Ricevette segnali positivi e addirittura uno sponsor. Nel duemiladue aveva già incartato migliaia di oggetti delle dimensioni più impensabili, inclusa una statua di bronzo di sette metri. Trovò uno squinternato al consiglio comunale di M… che gli diede il permesso d’incartare quel che rimaneva di una chiesa in rovina presso il fiume Narso e allora cominciò a togliere via una pietra, incartarla, e rimetterla al suo posto. Dopo quasi quattro mesi di lavoro, una sera ubriaco camminava in bilico sul bordo di un ponte. Cadde e annegò. Dicono ch’era diventato impaziente.

Nella sua città natale decisero di dedicargli un piccolo epitaffio e una statua, incartata anch’essa. I suoi diari li aveva trovati la madre e li aveva dati via per fare qualche soldo. In essi aveva scritto: “Incarterò il mondo intero. Sarà un regalo ai nostri discendenti, che s’interrogheranno sulla nostra grandezza e capiranno il valore delle cose che abbiamo tramandato loro con tanta cura, perizia e amore”.